Archivio mensile:giugno 2010

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Un anno fa ero in stato confusionale, non capivo granché.

Però, ecco, ero certa che quel famoso colpo di fulmine che fiumi di letteratura dicono ti colpisca non appena posi gli occhi su tuo figlio a me non era capitato. Vero è che io ci metto un po’, per innamorarmi di Fede un anno circa, e poi in una nota scritta in piccolo in un libro ho letto che mica a tutte le donne succede così, quindi avevo fatto finta di niente e con nonchalance avevo cominciato a conoscere mio figlio. Mio figlio. Solo per abituarmi a queste due parole ci ho messo un po’.

Prima è arrivato l’istinto di protezione. Anche di possesso, non neghiamolo (questa è una di quelle verità che fa brutto ammettere, sempre in una visione idilliaca della madre santificata e del salvifico istinto materno, in stile catto-letterario), e per dirla tutta pure di rivalsa: tutta ‘sta fatica, sarò in credito di qualcosa o no?

No. La risposta è no. L’ho capito dopo il primo di molti sorrisi, carezze, spaventi, coccole.
Quando per la prima volta mi ha abbracciato, mettendomi il braccino intorno al collo e poggiandomi la testa sulla spalla, ho capito che ero persa. E che nulla che posso fare ricambierà ciò che ho.

(la letteratura ti frega sempre, questa è la verità)
 

non sarò mai una signorina – insofferenza (a sé, parte 2)

Tutti gli anni mi ritrovo i piedi martoriati all’inizio dell’estate, e visto che ora sono una donnina grande decido di darmi una botta di vita e farmi fare pedicure e manicure, e pure con lo smalto rosso scuro (che rosso brillante ancora non ce la sentiamo, avendo temporibus illis letto che non si può mettere prima dei trent’anni e nella mia mente questo è ancora lungi da me).

Venerdì vado a fare la pedicure (non c’era tempo per tutto). Al sole sembra più un fucsia scuro, la ragazza mi dice che lunedì me lo rifa insieme alla manicure.

Passo il weekend a guardarmi i piedi, poco convinta che siano i miei che finora han conosciuto, e raramente, solo lo smalto trasparente – sembrano proprio quelli di una signora. Mi ci devo abituare.

Lunedì mi rifaccio il tutto, esco al sole e mi rimiro i piedi che sembrano ancora meno i miei – sembrano quelli di una donna cinica e navigata che tra un attimo ti guarderà in tralice chiamando il cameriere con la lunghissima unghia laccata e pazienza che le mie son corte corte.

Tempo di arrivare a prendere Giorgio e un dito dei piedi è senza smalto. Tempo di arrivare a casa e le unghie delle mani fan schifo.
Di colpo mi ritrovo a sentirmi il brutto anatroccolo adolescente e penso che mai, mai riuscirò a fare il salto: carina, sì, elegante, a volte, ma il livello successivo, quello della donna adulta, a posto, ordinata, con tutto sotto controllo è oltre le mie possibilità.
Un moto di ribellione mi scuote: mi ricordo che ho 36 anni, e con uno smalto mio vado dalle cinesi sotto casa a farmi sistemare.

Altri 30 euro, ma sono a posto.

Prima di andare a dormire vedo che due dita della mano sinistra sono mezze rovinate.
Penso chi se ne frega, le donne con le unghie perfette evidentemente non hanno figli e/o non cucinano.
E se avrò mai una figlia, quando avrà 14 anni ci saranno diverse zie iperfemminili cui mandarla ad imparare.

stringiamci a coorte

A proposito delle ennesime polemiche, risolvibili con la soluzione proposta da la Stampa:

Siamo al punto di partenza. Mameli o Verdi? Il dilemma pare insolubile. Perché allora non ricorrere al più logico, sensato e democristiano dei compromessi? Perché non Mameli e Verdi? Non lo ricorda nessuno, ma il Risorgimento ci ha anche consegnato un Inno che s’intitola «Suona la tromba», parole di Goffredo Mameli, musica di Giuseppe Verdi.

leggo con gusto questo articolo:

C’è un antico inno, nato nell’Italia settentrionale, che glorifica la vittoria della Lega Lombarda. C’è un Presidente di regione a cui non piace, e che ha chiesto di sostituirlo con un coro di ebrei sconfitti ed esiliati.

Mi tolgo lo sfizio di riportare il testo che evidentemente nessun leghista ha mai letto:

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi
Raccolgaci un’Unica
Bandiera una Speme
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò

E se avanza un po’ di tempo si può anche indugiare fino alla quarta strofa, per il gusto di cantare che “dall’Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano”. Dovunque, capito?

insofferenza (a sé, parte 1)

Una settimana fa circa ho compiuto gli anni.
Il giorno dopo ho portato i dolcetti in ufficio, così magari socializzo un po’ (e se non ci sono ancora riuscita io, avete un’idea dell’ambiente, con le ovvie debite eccezioni, ma ne riparleremo).
Il nuovo collega arrivato mentre ero in maternità mi chiede se può chiedermi che età ho.
Con nonchalance, giuro, non li ho proprio sentiti quest’anno, anzi diciamolo, io non li sento mai, gli dico tranquillamente 36.
Vedo la sua faccia.
Una faccia innanzitutto un po’ sorpresa (grazie), ma principalmente la faccia di uno che vede davanti a sé una trentaseienne.

Che c’è di strano: ho 36 anni.

Ho. 36. Anni.
Era la faccia che ho io quando qualcuno mi dice che ha 36 anni: una persona adulta. Responsabile. Grande.
Che ha pure un figlio, quindi tutto nella prevedibilità.

Cioè, lui mi vede così. IO mi vedo così, cioè mi vedrei così se non fossi io, insomma io vedo così i trentaseienni.

Ma ecco, il fatto è che non sono io. Io non sono grande! Non sono adulta! Sono cresciuta? E quando è successo? Se l’età che si ha è quella che ci si sente, io ne ho, toh, 30.
Neanche tanti meno.

Un’eternità.

 

(continua)