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«I miei anni di vita fantasma»
Ha lasciato la Calabria nel ’97, di notte, i figli avvolti nelle coperte. Per la prima volta esce dal buio la moglie di un imprenditore che ha sfidato la ’ndrangheta
Marisa, moglie di Pino Masciari, 43 anni e due figli di 12 e 13: per loro, la vita clandestina è la normalità
Di quella strana giornata in caserma a Lamezia Terme, Marisa non conserva ricordi emotivi, solo immagini. Un questionario da compilare. La prospettiva, disegnata con apparente fermezza, di un limbo di sei mesi, un anno al massimo. Un funzionario del ministero dell’Interno che le rivolgeva una domanda retorica («Ci tiene alla vita dei suoi figli?») mentre lei sedeva attonita e svuotata con la bambina attaccata al seno. Tre giorni dopo, il segnale: stanotte si parte. Le valigie riempite in fretta, un fornello da campeggio e un pentolino per scaldare pappe in emergenza. Caricati su un furgone per destinazione ignota, i bambini avvolti nelle coperte. Dieci ore di viaggio per trovarsi in una casa piccola «con la cucina sporca e le impronte di sudore sui cuscini». Quattro traslochi in pochi mesi, infine la casa che Marisa abita da dieci anni, in località segreta, e sembra impossibile ma ancora non riesce a svuotare scatoloni, a riporre biancheria, a esporre le foto di famiglia nelle cornici buone, come abbandonata nel suo tempo sospeso. Da quella notte del 17 ottobre 1997 suo marito è un fantasma, lei e i due figli con lui: congelata in un eterno presente, così si dipinge, sommessa e rabbiosa, al tavolo di un bar in una città dov’è di passaggio per sbrigare una delle mille faccende burocratiche che le avvelenano la vita. È la prima volta che accetta di parlare, di aggiungere la sua storia a quella, più nota, del marito: Pino Masciari, oggi testimone di giustizia, ieri tra i maggiori imprenditori calabresi, che si ribella al pizzo e denuncia, facendo processare (in molti casi condannare) 41 affiliati a quattro potenti famiglie di ’ndrangheta, e anche un magistrato.
Quando il ministero dell’Interno lo esclude dal programma di protezione, nel marzo 2005, nonostante i processi non siano finiti e il pericolo di vita, per chi scoperchi un intero sistema criminale, non possa considerarsi a termine, Masciari comincia a gridare. Fa ricorso al Tar del Lazio che si pronuncerà, con incredibile ritardo, il 18 dicembre. Apre un blog www.pinomasciari.org, gira l’Italia a parlare di legalità, invitato da associazioni, scuole e Comuni, e diventa uno scomodo ossimoro: un testimone di giustizia famoso, che cerca protezione nella visibilità e nella solidarietà che tanti gli stanno dando. Marisa ha condiviso ogni sua scelta. È la sua ombra e le sue fondamenta. Senza di lei, dice Pino, senza la sua fermezza, non avrebbe mai deciso di denunciare. Quarantatré anni, elegante, occhi azzurri speciali e una magrezza che, confida, deriva dai disturbi alimentari esplosi dopo lo strappo. La sua vita precedente era la laurea in odontoiatria con 110 e lode, lo studio dentistico avviato con il fratello, la grande casa a Serra San Bruno, in provincia di Vibo Valentia, ville al mare e in montagna, due tate per i figli, amiche, una famiglia numerosa e unita. Quando il marito è strangolato dalle cosche, che gli incendiano i capannoni e gli gambizzano il fratello, e una giudice di Vibo Valentia (poi arrestata nel 2006 nell’operazione anti ’ndrangheta «Dinasty-Do ut des») gli sentenzia il fallimento per un ammanco ridicolo rispetto all’entità dei suoi appalti, Marisa lo incoraggia a non subire più. «Non immaginavo una gestione così improvvisata delle nostre vite, che avevamo riposto con fiducia nelle mani dello Stato». Oggi lei passa le giornate accompagnando i figli a scuola, facendo la spesa, guardandosi attorno in continuazione. Pino ha avuto la scorta solo per alcuni spostamenti, lei mai.
Vivono con il contributo statale previsto per i testimoni di giustizia («1.600 euro al mese»), ed entrambi impazziscono senza lavorare: «Il ministero mi ha autorizzato a esercitare la mia professione, stanziando una somma affinché apra uno studio dentistico, ma dovrei farlo a mio nome. E sarebbe come dire ai mafiosi: venite ad ammazzarmi». Carte alla mano, Marisa elenca episodi che ha vissuto come illogiche vessazioni: «Dicono di avermi trovato un posto in una Asl, ma a 70 chilometri da dove sto, come se per me fosse semplice allontanarmi dai miei figli. Mi hanno persino autorizzato a iscriverli a scuola con i veri nomi. Abbiamo alcuni documenti di copertura, sugli altri compare la nostra identità: non li hanno mai uniformati. Intanto dobbiamo nasconderci: Pino è stato operato d’urgenza di peritonite, si era trascurato per non presentarsi in ospedale con il suo nome. La vigilia di Natale del 2004, la Commissione centrale per la protezione dei testimoni non ci ha mandato gli auguri bensì una diffida a non creare conflittualità con il personale preposto alla nostra sicurezza; gli stessi che, quando Pino andava a testimoniare ai processi, parcheggiavano davanti ai tribunali calabresi l’auto con la targa della nostra località protetta… Giocano con le nostre vite. E io la paura me la sento addosso. Tanto varrebbe rientrare nella nostra terra, almeno avremmo i nostri affetti, la nostra casa. Ma ce lo hanno negato, dicono di non poterci garantire sicurezza laggiù. Perché qui, invece?». Sua madre, i due fratelli e la sorella, Marisa li ha rivisti solo due anni fa: lei e il marito sono passati per la Calabria rischiando, pur di incontrare le famiglie che nel ’97 li avevano immaginati in viaggio e dopo mesi di silenzio li piangevano come si piangono i morti. «I miei figli hanno conosciuto la nonna due anni fa. Per loro la clandestinità è la normalità: hanno 12 e 13 anni, non conoscono altra vita che questa. Quando erano piccoli ignoravano il loro cognome, poteva essere pericoloso, potevano riferirlo. Poi un giorno il maggiore ha detto: “Papà, io lo so che non fai davvero il poliziotto”. Ora sanno». È per loro che i Masciari non chiedono il cambio di generalità, che significherebbe trasferirsi ancora, cancellarsi. «La mia libertà, tanto, non la riavrò mai più».
Marisa si sente in esilio, «murata viva». La amareggia che il ministero dell’Interno, alle loro proteste per la «gestione burocratica delle nostre vite», risponda con le cifre stanziate, e previste per legge. Anzi, ai testimoni di giustizia andrebbe garantito un tenore di vita pari a quello goduto in precedenza: nel caso dei Masciari, che erano molto agiati, nulla è come prima. «Siamo trattati come pesi, non come risorse. Farci tornare in Calabria sarebbe la vittoria dello Stato: dimostrare che è in grado di proteggerci anche nella terra delle cosche. Darebbe un segnale importantissimo a tutti i cittadini per bene che vogliono denunciare ma hanno paura». Un giornale, intervistando Pino Masciari, ha titolato Dead man walking, uomo morto che cammina. «Fa male, ma è la verità. Tutti e quattro siamo bersagli. E lo saremmo di più se fossimo rimasi isolati, in silenzio: parlare, ricevere solidarietà da ogni parte d’Italia, ci restituisce almeno la dignità ». Agli incontri pubblici di Pino Masciari, ci sono tanti giovani a proteggerlo simbolicamente: a settembre il ministero dell’Interno lo ha infatti autorizzato a spostarsi «in piena autonomia » negandogli la scorta. Settimana prossima, diversi comuni piemontesi gli conferiranno la cittadinanza onoraria, come già hanno fatto Torino e Bologna. Marisa lo seguirà: a Ivrea, a Nichelino, a Cuneo, a Chieri. E forse, per la prima volta, anche lei parlerà davanti a una platea. Per buttar fuori, con voce carezzevole e sofferente, il suo senso dello Stato «tradito dallo Stato».
Emanuela Zuccalà
20 novembre 2008 (ultima modifica: 21 novembre 2008)
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